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Approccio fisico e chimico nello studio della gomma nei primi anni del 900
<p style="text-align: justify;" data-start="448" data-end="1421">La preistoria della chimica dei polimeri costituisce un terreno privilegiato per osservare dinamiche epistemologiche complesse, nelle quali l’evoluzione delle teorie non dipende soltanto dall’accumulo di dati sperimentali, ma anche – e talvolta soprattutto – da condizioni metodologiche, abitudini concettuali, rigidità istituzionali e atteggiamenti dogmatici dei protagonisti scientifici. Nell’analisi proposta da Zandvoort (1988), la vicenda che conduce all’affermazione della teoria macromolecolare di Staudinger si configura come una sequenza di scelte teoriche non sempre giustificabili sulla base dell’evidenza empirica disponibile, ma spesso radicate nella struttura stessa della pratica chimica di inizio Novecento. Tale struttura, formata entro l’alveo della chimica organica classica, rappresentò per molti anni sia il fondamento della ricerca, sia il principale ostacolo concettuale che dovette essere superato affinché la moderna scienza dei polimeri potesse emergere.</p> <p style="text-align: justify;" data-start="1423" data-end="2503">Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, i chimici organici si confrontarono con una vasta gamma di fenomeni colloidali che sfuggivano ai criteri diagnostici tradizionali. Sostanze come gomma naturale, cellulosa, amidi, resine e vari prodotti sintetici mostravano proprietà anomale, quali viscosità elevate, scarsa cristallinità e capacità di formare soluzioni opalescenti. Questi comportamenti richiedevano una spiegazione strutturale, ma la comunità scientifica non riusciva a convergere su un’interpretazione condivisa. Da un lato si affermava una linea esplicativa di tipo chimico, che attribuiva i fenomeni colloidali all’esistenza di molecole di dimensioni eccezionali, costituite da catene covalenti di lunghezza insolitamente elevata; dall’altro lato si sviluppava un approccio di carattere fisico, che interpretava i colloidi non come molecole gigantesche, ma come aggregati di unità molecolari piccole, unite da forze intermolecolari deboli, come le parziali valenze descritte da Thiele o le valenze secondarie della scuola di Werner .</p> <p style="text-align: justify;" data-start="2505" data-end="3450">Il caso della gomma divenne rapidamente archetipico della controversia. Secondo Harries, la gomma doveva essere interpretata come un aggregato fisico di piccole unità cicliche, un’ipotesi che si radicava nelle teorie dell’associazione fisica allora in voga. L’argomentazione trovava eco in una comunità sempre più orientata a privilegiare spiegazioni basate su interazioni deboli e su modelli di aggregazione, anche in virtù della crescente influenza della chimica fisica di Wilhelm Ostwald. Tuttavia, esperimenti come quello condotto da Pickles nel 1910 mettevano in discussione l’impianto teorico dominante: la saturazione dei doppi legami tramite bromurazione non alterava il comportamento colloidale della gomma, smentendo l’ipotesi che le forze di associazione derivassero dalle insaturazioni dei monomeri isoprenici . Tali evidenze, pur decisive dal punto di vista chimico, vennero ampiamente ignorate.</p> <p style="text-align: justify;" data-start="3452" data-end="4674">La ragione di tale resistenza non è da ricercarsi in un deficit di dati sperimentali, bensì nel carattere profondamente normativo del metodo della chimica organica classica. Secondo questo metodo – codificato alla fine del XIX secolo e insegnato come prassi consolidata – una sostanza pura doveva poter essere isolata, purificata, caratterizzata mediante un punto di fusione o ebollizione ben definito e descritta attraverso una singola formula di struttura. Questa impostazione, apparentemente neutrale, esercitava un’influenza selettiva sulle teorie accettabili. Come nota Zandvoort, solo l’approccio fisico ai colloidi si armonizzava con tale metodologia, poiché esso interpretava le sostanze colloidali come aggregati di piccole molecole che, prese singolarmente, rispondevano perfettamente ai criteri di purezza e definibilità strutturale. L’approccio chimico, invece, risultava intrinsecamente incompatibile: ammettere l’esistenza di macromolecole significava accettare che una “sostanza pura” potesse consistere in una miscela di molecole simili, ma non identiche, con pesi molecolari variabili e priva di proprietà fisiche nette. Era una rivoluzione concettuale troppo radicale per essere accolta senza resistenze.</p> <p style="text-align: justify;" data-start="4676" data-end="5797">In questo contesto di opposizione teorica e metodologica emerse la figura di Hermann Staudinger. Nel 1920 egli formulò pubblicamente, e con notevole energia polemica, la sua concezione delle macromolecole, proponendo che molte sostanze tradizionalmente considerate colloidi fossero invece costituite da catene covalenti di lunghezza elevatissima. L’audacia della proposta non risiedeva solo nella lunghezza inedita delle molecole ipotizzate – una possibilità comunque prevista dalla teoria strutturale classica – ma nella necessità di modificare definizioni fondamentali della chimica organica. Staudinger sostenne che una sostanza potesse essere considerata pura anche se costituita da molecole con gradi di polimerizzazione diversi, purché derivate dallo stesso monomero, ridefinizione che metteva in crisi l’intero impianto metodologico della disciplina. Non sorprende, dunque, che i colleghi reagissero con scetticismo, quando non con aperta ostilità. Staudinger fu accusato di fare “Schmierenchemie”, una chimica disordinata e impura, indegna della tradizione organica classica .</p> <p style="text-align: justify;" data-start="5799" data-end="6600">Nonostante ciò, Staudinger proseguì con determinazione, sostenuto da una strategia epistemica fondata sul principio di parsimonia teorica. Egli riteneva più semplice, e al tempo stesso più coerente con i dati, assumere l’esistenza di catene covalenti lunghe piuttosto che postulare complessi sistemi di forze fisiche di aggregazione. La sua ricerca, che si estende dagli anni Venti ai primi anni Trenta, produsse una quantità significativa di prove indirette a favore della teoria macromolecolare: reazioni caratteristiche, comportamenti viscosimetrici, risultati di degradazione controllata e altri dati sperimentali che, pur non essendo risolutivi singolarmente, formavano un mosaico sempre più convincente. Col tempo, questo corpus di evidenze rese l’interpretazione fisica sempre meno sostenibile.</p> <p style="text-align: justify;" data-start="6602" data-end="7425">La transizione verso l’accettazione della teoria macromolecolare non fu improvvisa, né lineare. Zandvoort sottolinea come, tra il 1927 e il 1935, coesistessero ancora visioni intermedie, come quella di Mark e Meyer, che proponevano modelli “cristalloidi” più moderati rispetto a quello di Staudinger, e che facilitarono un passaggio più graduale da una concezione all’altra. Ciò non toglie che, alla fine, fosse la visione radicale di Staudinger a imporsi. L’arrivo, a partire dagli anni Trenta, del contributo di Wallace Carothers aggiunse poi un ulteriore tassello: attraverso un approccio sintetico sistematico, Carothers forni’ quella “prova costruttiva” dell’esistenza delle macromolecole che gli organicisti più scettici non potevano più ignorare. La produzione del nylon nel 1938 rappresentò il punto di non ritorno.</p>